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COL BUIO ME LA VEDO IO – Anna Mallamo
Einaudi Editore – Collana Supercoralli – 198 pp.

Col buio me la vedo io è un romanzo che parla di cose antiche, quasi epiche. Ma in ogni caso nel farlo l’autrice Anna Mallamo plasma una sua lingua, e così la piega e la evolve pur senza stravolgerla o buttarla in iperbole, sempre con la giusta misura del registro.
Mallamo dosa le parole e le rende luccicanti, gocce piene di senso, ognuna a scavare tutta la verità possibile. E questo distacco dalla zona grigia nella quale noi lettori ci aggiriamo ha qualcosa di prodigioso.
TRAMA:
La storia è molto semplice, sembra quasi non accadere nulla, se non un fatto gravissimo. Siamo a Reggio Calabria e Lucia, una ragazzina di sedici anni, imprigiona un suo compagno di scuola Rosario Cristallo, figlio di un boss dell’Apromonte, nello scantinato della casa della nonna defunta. Lucia viene presa dai ricordi e dalla raggia. Pertanto la lingua si sdoppia, come tutto quello che accade in questo romanzo, fuori e dentro i personaggi, dentro e fuori lo scantinato, sopra e sotto. Di conseguenza il gioco del due, del significato e del significante, vengono tesi come corde, corde o catene. Il lettore viene ipnotizzato dalle parole, dall’uso che Mallamo riesce a farne e segue la vicenda entrando nella testa della giovane Lucia.
IL GIOCO DEL DOPPIO:
La contrapposizione tra significati è dirimente, anche nel nome ossimoro della protagonista: Lucia/luce Carbone/buio. La doppia vita. La lingua doppia. Famiglie schierate. La malavita e i dritti. I pensieri e la realtà. La fratellanza e la sorellanza. Madre e padre. Ricchi e poveri. Sopra e sotto. Fuori e dentro. Vuoto e pieno. Fame e sazietà. Maschi e femmine. Vita e morte.
Questo gioco del doppio non è solo tematico, ma linguistico, culturale, psicologico. La scrittura diventa specchio della frattura interiore, della tensione che abita ogni parola, ogni gesto.Tutto il romanzo poggia su questo filo rosso, l’espediente narrativo più forte adoperato da Mallamo e che si innesta sulla lingua, altrettanto intensa. Una lingua che la devi sapere un poco come l’amica Beatrice con Lucia, che la sa, e che in tutta la storia è l’unico rifugio per Lucia, ma che comunque non basta per contenere tutte le cose rotte che si porta dentro e che vede intorno alla sua vita e alla viata dei grandi.
La follia e la ragione sono due facce della realtà che Mallamo inserisce magistralmente dentro la narrazione con i personaggi di Jolanda e Maria, due facce della follia che inquieta le adolescenti e fa vedere altre versioni del reale. Jolanda è una donna originale ed enigmatica che distribuisce foglietti e si trasforma in un oracolo dal quale attingere significati mentre Maria è la follia è la voce pura della raggia femmina che appella le ragazze così: “Buttana, dammi deci liri” e loro a scappare. Ma in fondo “siamo pazzi tutti, quando c’è scirocco siamo invisibili tutti”.
Anche Jolanda e Maria sono doppi speculari per Lucia: frammenti di una femminilità ferita, visionaria, marginale, che inquieta e affascina.
Anche la nonna, solida e rocciosa, è destinata alla doppia identità, perchè anche la verità ha sempre una seconda, possibile, interpretazione.
Lo sguardo dell’adolescente sul mondo che la circonda è uno sguardo al contempo disincantato e capace di un’analisi tagliente, come solo in quegli anni riusciamo ad essere taglienti. Il bambino è ancora latente nell’adolescente, il bambino crede ancora nelle cose che devono accadere e nel modo in cui dovrebbero accadere: l’adolescente vede la vita ma ancora non si capacita che accada proprio in questo modo e rimane stupito “in cerca di un esempio di felicità”. E noi adulti che osserviamo gli adolescenti ci sentiamo traditi da tutta la verità che loro ci mostrano, una verità che ormai intuiamo sotto le cose ma che preferiamo non vedere. Infatti lo sguardo impertinente fa tenerezza e fa anche paura perchè guarda e mostra la verità e la verità se staccata dal momento, tolta dal meccanismo dell’esistenza, diventa dolorosa.
LA SPINTA:
Ma cosa spinge un’adolescente, per quanto ferita dal mondo che la circonda, dalla madre che non la circonda e al contempo la assedia manifestandosi geneticamente nel suo corpo e nella sua voce, a rapire il figlio di un boss?
La risposta è tipicamente calabrese: la famiglia.
A pulsare è il cuore della famiglia: le femmine, la nonna e le zie, quei corpi che immagina ancora sui davanzali a guardare il mondo che passeggia di fuori, corpi morbidi che odorano e che sanno di nostalgia. La mancanza delle donne segna l’esistenza di Lucia, la fa sentire da sola, annusa il vuoto intorno, la casa vuota e abbandonata dove solo lei va a bagnare le piante, gli oggetti dimenticati e rotti, la stanza dove ha incatenato Rosario, la stanza che bisbiglia e che ingoia tutto anche lei, nell’indifferenza di chi resta della famiglia e che non ha a cuore nulla.
Zia Rosa è stata una vittima, una donna sopra le righe che sfuggiva agli schemi, che scriveva diari conservati gelosamente da Lucia, che rilegge quelle frasi e vi cerca risposte, sostegno, appartenenza.
La spinta diventa quindi la vendetta, la sete di giustizia.
SCRITTURA:
La scrittura di Mallamo è fresca, le parole sono scelte, e lo si percepisce, con cura ma anche con una spontanea appartenenza al linguaggio usato. Attraverso le parole si ripercorre un viaggio a ritroso dentro la protagonista ma anche, di riflesso, dentro l’autrice, promana quel senso di appartenenza tipico di chi ha radici così fortemente radicate, e la regione della Calabria intesse reti fitte che trattengono per generazioni anche chi nasce lontano o si trasferisce altrove. Le parole poi dispiegano il loro significato, diventano simboliche e intercettano traiettorie generando immagini che si rincorrono nel testo e che danno vita a stanze luminose di appartenenza, qui il lettore entra in confidenza con la materia, lo spirito e i pensieri di Lucia Carbone. Il femminile diventa casa, la casa un prigione dalla quale fuggire e poi di nuovo, luogo nel quale rinchiudersi per scappare dal mondo in un cerchio intermittente di rimandi.
Perché leggerlo
Col buio me la vedo io è un romanzo di formazione, ma anche un atto poetico, politico, linguistico.
È la storia di una ragazza che urla in silenzio, che cerca il senso in un mondo che ne ha perso troppi. Un’altra recensione in questa zona geografica è L’infanzia è terremoto rimando al link dove trovate la recensione, il tema è diverso ovviamente, eppure quando leggo storie ambientate in queste terre tra Sicilia e Calabria, penso alla contradditorietà che portano dentro e anche in Susani lo si evince fortissimo.
È adatto a chi ama la narrativa che sfida, la scrittura che vibra, le storie che portano dentro la rabbia e la luce, e le parole che non consolano ma aprono.
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Grazie per la lettura,
Luciana